
Nessuno conosce Sayuki, Francesca Scotti, Bompiani 2025, 176 pagine.
Intervista a cura di Maria Laura Zazza
Nessuno conosce Sayuki è un titolo evocativo e quasi enigmatico: com’è nata l’ispirazione per questo romanzo, e in che momento ha sentito che Sayuki doveva diventare protagonista di una storia?
Il titolo è nato da un’intuizione: Sayuki, pur essendo al centro della vita del marito e della famiglia di lui, resta per tutti inafferrabile. Lei incarna per me il fascino e l’alterità, proprio come il Giappone: un paese in cui ho vissuto tredici anni ma che non smetto di sentire sfuggente. E non è una percezione spiacevole, anzi. Grazie a questo la ricerca e la curiosità sono diventate due costanti della mia vita.
L’ispirazione per questo romanzo si è formata nel tempo; Sayuki, e in particolare il mondo dei fiori, hanno cominciato a nutrire la mia immaginazione. E quando ho percepito che grazie a lei avrei potuto raccontare una frattura – e insieme una rinascita – è diventata protagonista.
Nel romanzo la voce non è solo di Sayuki, ma si diffonde in un coro di personaggi che le ruotano attorno: come ha scelto di costruire questo intreccio di sguardi, e perché era importante che ognuno di loro avesse modo di raccontare il proprio smarrimento?
La scintilla che dà origine dalla storia è un evento apparentemente privato – la separazione – che in realtà si propaga, infiammando l’intera rete di relazioni. Sayuki diventa una sorta di specchio nel quale gli altri personaggi rivedono i propri segreti, i propri difetti. E si consumano intorno a questa paura, trasformando il romanzo in un racconto corale.
Il comportamento di Sayuki destabilizza perché non concede spiegazioni: gli altri, nel tentativo di capire cosa stia accadendo, quali siano i suoi pensieri, finiscono per raccontare se stessi. Era per me importante che ogni voce emergesse, perché ogni personaggio ha un’idea parziale e falsata di chi sia Sayuki. Ma è proprio il suo enigma a generare in ciascuno un forte movimento.
Sayuki sembra sfuggire a ogni definizione: è neve, è fiore, è silenzio, eppure è il cuore pulsante del romanzo. Come ha immaginato questa figura, e quanto è simbolica nel suo essere sempre sul confine tra presenza e assenza?
Sayuki l’ho immaginata proprio come una figura liminale, sospesa sulla linea sottile che separa due mondi. È dotata di una profonda empatia grazie alla quale riesce a cogliere ciò che gli altri non vedono, del mondo e di se stessi. Ha un legame ancestrale con la natura, comunica attraverso un linguaggio dei fiori che lei stessa ha creato, mescolando la cultura giapponese a una sensibilità del tutto personale. Agisce senza clamore, ma con fermezza, e proprio per questo inquieta chi le sta intorno. Come dicevo, in qualche modo rappresenta anche la mia esperienza con il Giappone: spirituale, complessa, trasformativa.
Nel gesto della protagonista che taglia i legami come si potano i rami, c’è durezza ma anche lucidità: raccontando una separazione ha voluto parlare anche di rinascita, di trasformazione possibile dentro le fratture dell’amore e della famiglia?
La potatura è un’immagine che ho sempre trovato molto forte: può sembrare un atto violento e in qualche modo lo è, ma al tempo stesso è indispensabile affinché la pianta cresca sana, forte, capace di fiorire e fare frutti. Anche il gesto di Sayuki appare crudele, ma l’intenzione non è fermarsi alla ferita, rimanere nel trauma: si tratta “solo” del momento iniziale di quella che sarà una rinascita scintillante.
Quando chiude un romanzo, cosa desidera che rimanga nel lettore, un’emozione, una domanda, un’immagine? E nel caso di Sayuki, qual è la traccia che si augura possa restare impressa?
Mi piacerebbe che, terminata la lettura, restasse l’eco di una domanda, un’onda lieve, una melodia che ogni tanto torna in mente. Vorrei che restasse un senso di possibilità: liberarsi di alcuni pesi del passato per abitare il proprio presente, qui e ora. E magari anche una nuova curiosità per il mondo dei fiori e delle piante che accompagnano la nostra quotidianità con una moltitudine di storie.
Nel caso di Sayuki, spero rimanga la sua ambiguità luminosa: il suo silenzio carico di attenzione, la sua energia quieta ma dirompente. Le devo molto perché è su di me che ha fatto il lavoro più profondo, permettendomi di raccontare questa storia.
Rispetto ai suoi lavori precedenti, Nessuno conosce Sayuki rappresenta una continuità di temi e sensibilità, oppure ha sentito il bisogno di aprire un nuovo capitolo nella sua scrittura, anche a livello formale e emotivo?
Credo ci sia continuità con i temi che amo – le relazioni, l’istante in cui qualcosa o tutto cambia, la presenza viva e misteriosa del mondo naturale, personaggi che abitano soglie, un po’ reali e un po’ fantasmatici. Allo stesso tempo, ogni nuovo romanzo o racconto rappresenta per me una sfida, un passo ulteriore nel percorso di scrittura – e anche Nessuno conosce Sayuki lo è stato. Desideravo portare la mia vita giapponese in una storia italiana, far convivere due aspetti per me identitari. A livello formale ho ricercato una scrittura essenziale, lieve e precisa: uno stile che permettesse anche al non detto di affiorare.

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