Articolo di Martina Greggi

C’è un silenzio che pesa più di qualsiasi bomba. È quello che segue il boato, quando la polvere si posa sulle macerie e la realtà si fa irriconoscibile. In quel silenzio, tra i frammenti di case e di vite, qualcuno prende un pennello, altri una penna. E ricominciano da lì: dal gesto antico e ostinato di raccontare.

L’arte e la scrittura, in tempo di guerra, non servono solo a ricordare. Servono a resistere.

Da sempre, laddove l’umanità si lacera, c’è chi sceglie di rispondere con un linguaggio che non uccide. Quando la guerra strappa, l’arte ricuce. Quando la propaganda costruisce nemici, la parola restituisce volti. È un atto di disobbedienza gentile, ma radicale: continuare a creare nel mezzo della distruzione. Scrivere, dipingere, fotografare, cantare, come se ogni gesto artistico fosse una dichiarazione di pace lanciata nel caos.

In ogni conflitto, ci sono artisti che non imbracciano fucili ma matite. Sono cronisti dell’anima, testimoni che raccolgono la verità non nei comunicati ufficiali, ma nei sussurri delle madri, nelle rughe dei sopravvissuti, nelle lacrime dei bambini. Le loro opere non fermano le bombe, ma salvano qualcosa di invisibile: la memoria.

E la memoria, in tempi di violenza, è la più fragile e la più necessaria delle armi.

Oggi, in un mondo dove le guerre non si combattono solo con le armi ma anche con la manipolazione delle immagini e delle parole, l’arte e la scrittura tornano a essere strumenti di discernimento. Ci aiutano a non assuefarci, a non diventare spettatori anestetizzati. Davanti a un flusso ininterrotto di notizie, spesso trasformate in intrattenimento, la scrittura può ancora restituire profondità. Può ridare senso, può chiedere silenzio, può pretendere ascolto.

Ogni poesia scritta tra le rovine è un atto di sopravvivenza. Ogni fotografia che mostra ciò che non si vorrebbe vedere è una forma di coraggio. Ogni libro nato dal dolore di un popolo è un atto politico, prima ancora che artistico. L’arte, nella guerra, non consola: denuncia. Non evade: resiste. Non offre pace immediata, ma chiede di guardare dentro l’abisso, di riconoscerlo, di non smettere di cercare un linguaggio per nominarlo.

Perché la guerra non distrugge solo le città, ma le parole. Le svuota, le contamina. «Pace», «verità», «umanità» diventano suoni incerti, slogan da riscrivere. È allora che lo scrittore, il pittore, il regista diventano sentinelle del significato: custodiscono la lingua, la riportano alla vita, impediscono che la menzogna la colonizzi.

Ci sono romanzi scritti tra i rifugi, quadri dipinti con colori di fortuna, articoli nati in clandestinità. Ognuno di essi testimonia una certezza: la guerra può distruggere i corpi, ma non l’immaginazione. E dove sopravvive l’immaginazione, sopravvive la possibilità della pace.

In fondo, fare arte in tempo di guerra è il modo più alto per dire “io non mi arrendo”. È affermare che l’essere umano non si riduce alla logica della violenza, che può ancora scegliere la bellezza, anche quando tutto intorno sembra negarla.

L’arte e la scrittura non sono rifugi, ma frontiere: luoghi dove la verità continua a parlare, anche quando il mondo tace o grida. E forse, in questo tempo che sembra aver dimenticato il valore del silenzio e della parola autentica, creare resta il più potente atto di pace. Perché ogni opera che nasce nel cuore della distruzione è, in fondo, una promessa: che l’umano, nonostante tutto, è ancora possibile.

Immagine in copertina di David Gallie


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“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.”

Italo Calvino

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