Con Aperto per restauro (Capponi Editore), Elvira Augello firma un debutto narrativo delicato e potente, capace di toccare corde profonde con una scrittura intima e lucida. Al centro della storia c’è Penelope una restauratrice che sa ridare vita a ciò che il tempo ha corroso, ma che sembra aver smarrito la propria. Intrappolata in una quotidianità spenta e afflitta da attacchi di panico, Penelope si rifugia nei gesti misurati del suo mestiere, finché il ritrovamento di due taccuini misteriosi non riaccende in lei un impulso vitale: quello di cercare, capire, risvegliarsi.

In questa intervista, Elvira Augello ci accompagna tra le pieghe della sua protagonista e ci racconta come è nato questo romanzo che parla di fragilità, rinascita e della sottile arte di restaurare, oltre agli oggetti, anche le emozioni dimenticate.

Aperto per restauro è un titolo che sembra parlare tanto di oggetti quanto di anime rotte: quando ha capito che era lui, e non un altro, a contenere l’essenza del suo romanzo d’esordio?

Aperto per restauro è arrivato come un sussurro, in una notte insonne, quando la storia stava ormai volgendo al termine. L’ho ripetuto dentro di me e ho capito che era lui: il titolo capace di raccontare non solo la trama, ma l’anima del romanzo. All’inizio, avevo pensato a qualcosa legato alla storia, ma nulla riusciva a cogliere ciò che davvero si muoveva in profondità, tra le parole e dentro le pagine. Di solito leggiamo “Chiuso per restauro”: un avviso che indica uno spazio interdetto, dove non si può entrare finché i lavori non sono conclusi e tutto è tornato perfetto e sicuro. Io, invece, ho voluto ribaltare quell’idea.  

Il mio titolo è una dichiarazione di intenti, una metafora che racconta il processo di ricostruzione e cambiamento interiore della protagonista. Nel romanzo, infatti, il restauro non riguarda solo oggetti ma anche corpi, relazioni e identità: una metamorfosi silenziosa che riporta alla luce ciò che era stato sepolto.

Per me, Aperto significa essere disponibile, esposto, anche nella propria vulnerabilità. Per restauro è il mio modo di dire: per guarire, per ricomporsi, per accettarsi… e imparare a ritrovare la propria forma. È una promessa ancora in atto: un invito a entrare nel cantiere dell’anima, ad avvicinarsi al disordine e alle crepe mentre la trasformazione accade. Ciò che è segnato può essere ricomposto ma non sarà mai identico a prima. E forse, proprio in quei segni vive la sua autenticità.

Penelope porta il nome di una donna che attende, ma la sua sembra una fuga dall’immobilità: ha voluto riscrivere il mito o raccontare una resistenza tutta contemporanea?

Entrambe le cose. Nel mito, Penelope sceglie di attendere, fedele, tessendo e disfacendo la tela in un ciclo infinito, mentre il mondo intorno a lei cambia. La sua è una forma di resistenza silenziosa, un atto di forza e pazienza. Io ho voluto dialogare con quel mito, trasformandolo.

La mia Penelope lavora nella sua bottega, sola, ricomponendo oggetti  ̶  e, in un certo senso, anche vite  ̶  con cura e dedizione. È fedele alla memoria, alla bellezza perduta, alla ricostruzione. Ma non aspetta nessuno: è stanca di rimanere intrappolata in un ruolo che non sente suo. Così decide di mettersi in cammino. Inciampa, cade, si smarrisce ma continua a muoversi.   Ogni passo, anche il più caotico o contraddittorio, diventa una forma di opposizione, diversa da quella del mito. Non è una fuga, ma una scelta consapevole: il gesto di chi vuole riconoscersi e reclamare la propria essenza.

Le fragilità psicologiche di Penelope, gli attacchi di panico, il silenzio che la ingabbia, sono narrate con lucidità e delicatezza: che tipo di responsabilità sente, oggi, nel dare voce a questo dolore invisibile?

Gli attacchi di panico, l’ansia, il senso di vuoto interiore sono esperienze difficili da esprimere. Scriverne non è stato semplice, anche perché, lo ammetto, alcune di quelle emozioni le conosco da vicino. In parte ho lasciato parlare i miei silenzi e le mie paure, nel tentativo di creare una connessione sincera con chi legge.

La protagonista non è solo un personaggio, ma l’eco di chi ha vissuto quella fame d’aria opprimente, quella sensazione di non riuscire a respirare. Ho cercato di raccontare questo dolore con spontaneità e delicatezza, senza forzarlo, lasciando che emergesse da sé. È la fatica di chi vive intrappolato nelle proprie ansie e la solitudine di chi si sente invisibile. Se anche una sola persona, leggendo il mio romanzo, si sentirà vista e compresa, saprò di averla accompagnata, anche solo per un piccolo tratto di strada. E questo, è ciò che più desidero come scrittrice.  

Il diario ritrovato, con la voce spezzata ma potente di un prigioniero, diventa per Penelope una scintilla: da dove nasce questa scelta narrativa e quale verità, secondo lei, custodisce il passato quando lo si ascolta davvero?

Il diario del prigioniero è stato, fin dall’inizio, un elemento centrale. Volevo intrecciare la storia di Penelope con la memoria collettiva, mettendo in risonanza due voci sole, lontane nel tempo ma unite dall’essere rimaste inascoltate. Ho scelto di raccontare la vicenda di un internato militare italiano perché rappresenta una pagina poco conosciuta della nostra storia: un atto di resistenza silenziosa e dimenticata, diversa da quella di cui si parla di solito, ma non meno importante.

Il passato non scompare: spesso resta custodito in lettere, diari, oggetti e nei non detti che attraversano le generazioni. Quando riaffiora e trova qualcuno disposto ad ascoltarlo, riesce a parlare al presente, svelando verità che ci aiutano a comprendere le ferite e a trasformarle in possibilità di rinascita.

E lei, come autrice, come è cambiata scrivendo questa storia?

Scrivere mi ha costretta a restare dentro una scena, dentro un’emozione, finché non trovavo le parole giuste per raccontarle. È stato un esercizio di ascolto che mi ha insegnato a rallentare.

Ci sono stati momenti di smarrimento, ma anche di meraviglia, nel vedere i personaggi prendere vita e guidarmi lungo sentieri che non avevo previsto. Questo romanzo è stato il viaggio che abbiamo intrapreso insieme.   
Come Penelope, ho imparato a sfidare alcune mie incertezze e a impormi piccole sfide quotidiane. Ero imperfetta prima di scrivere e lo sono rimasta… solo un po’ più consapevole. Anch’io, in fondo, sono aperta per restauro.

Se Penelope fosse qui, oggi, accanto a lei, cosa pensa direbbe di se stessa dopo il viaggio che ha compiuto nel libro?

Forse, direbbe: «Ora voglio scoprire dove avrò il coraggio di condurmi. Anche se incompleta, ogni vita merita di essere vissuta pienamente. Perdite, dolori e addii non mi hanno tolto nulla, anzi mi hanno riportata a ciò che ha davvero senso e valore per me. Voglio continuare a sentirmi viva e a scoprire chi sono davvero.» E io non potrei che essere d’accordo.

La vita non si aggiusta e non si compie una volta per tutte: è un’opera in divenire. Ogni giorno si arricchisce di nuove sfumature, di consapevolezze e di quella magia che nasce quando ti affidi e ti lasci andare, senza sapere dove ti porterà. È in quell’apertura che lo straordinario si rivela, dando inizio alla vera trasformazione.


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“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.”

Italo Calvino

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