Al centro della storia c’è Iris, trentadue anni e un’esistenza sfatta come la casa della sua infanzia, in cui torna a galleggiare dopo la fine di una relazione e di ogni direzione. La sua vita è un paesaggio di rovine: un lavoro insignificante, una madre annientata da amori miserabili, un passato che pesa come piombo e un futuro che non si lascia immaginare.

Iris è il volto di tutte quelle donne che, giorno dopo giorno, tengono insieme i cocci senza nemmeno sapere perché. E nella sua fuga verso Breach House non c’è eroismo: c’è bisogno. C’è fame. Una fame feroce di qualcosa che somigli alla pace, all’identità, a una versione di sé che non sia definita dal fallimento o dalla dipendenza affettiva.

Quando Iris approda a Breach House, una comune rurale solo per donne, immersa nella campagna del Kent, crede forse di aver trovato una via di fuga. Una seconda possibilità, un altrove radicale. Qui tutto è rovesciato: la terra prende il posto dei salotti, le mani si fanno dure, i corpi si liberano di abiti e decoro, le gerarchie patriarcali si polverizzano in nome di una sorellanza ruvida, senza orpelli. È un mondo senza uomini ma non senza violenza. Perché il dolore, la perdita, il rancore, quelli non restano fuori dal cancello.

Twigg disegna personaggi femminili indimenticabili: Hazel, la ninfa impacciata e magnetica, fatta di contraddizioni e appetiti; Blythe, la matriarca granitica, santa o carnefice, che si erge a guida ma nasconde crepe profonde. Breach House è un’utopia fragile, un eden che puzza di terra, sudore e segreti. E come ogni paradiso autoproclamato, cela un inferno appena sotto la superficie. La sensazione, leggendo l’autrice canadese, è quella di entrare in una casa che brucia lentamente, e decidere, consapevolmente, di restarci dentro. Non perché ami il dolore, ma perché sai che là fuori il gelo è ancora più insidioso.

Il romanzo non offre redenzione facile. Iris, e con lei le altre donne, scopre che non basta cambiare luogo per guarire. La libertà può diventare una prigione quando si fonda sull’illusione dell’oblio. Perché fuggire non salva, e il dolore messo a tacere non smette di parlare: sussurra, scava, infetta. Ed è proprio quando la comunità viene scossa dall’arrivo di un elemento esterno – maschile, imprevisto – che la verità comincia a sfaldarsi, insieme alle certezze costruite con così tanta fatica.

Amy Twigg osa dove altre autrici si fermano, non dà risposte, non consola ma ti accompagna, con una scrittura tagliente e poetica, dentro il buio della psiche femminile. I suoi personaggi sembrano scolpiti nella carne, vivi e contraddittori. La sua prosa è brutale e lirica, capace di passare dall’intimo alla denuncia con un’agilità feroce.

Adorate creature è un libro sull’ossessione, sulla fame d’amore e di giustizia, sulla vendetta silenziosa che cresce nelle donne spezzate. Ma è anche un inno spietato alla necessità del confronto con sé, al dolore come unica porta per la rinascita autentica.

La sensazione finale è di sfinimento e gratitudine, perché Adorate creature non ti lascia indenne, ma ti lascia qualcosa dentro e uno specchio in cui guardarti. Questa non è una storia di guarigione, è una storia di sopravvivenza. Leggere Adorate creature significa accettare di entrare in un luogo dove la verità fa male e la libertà ha un prezzo. La rinascita richiede il dolore, non si guarisce mai del tutto ma si può imparare a respirare con le cicatrici.


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“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.”

Italo Calvino

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