La ragazza del pianoforte, Ugo Petroni, Brè Edizioni, 314 pagine.

Un thriller che si sviluppa su due filoni narrativi: uno presente, scritto in prima persona, e uno passato scritto in terza persona. Una misteriosa e affascinante ragazza che suona il pianoforte, una villa gotica e inquietante, uno strano incidente stradale che fa perdere la memoria a Daniele, e poi Sara e la figlia Alice, in perenne pericolo. Ma non basta, altra protagonista è la cocaina che condiziona l’uomo rendendolo violento e pericoloso. E poi lui: lo specchio, confine tra realtà e leggenda. Perché La ragazza del pianoforte ha una missione da perseguire e non smetterà di suonare fino a che non avrà raggiunto il suo scopo. Ma quale? Un thriller per serate insonni, tra languide melodie e sinistri presagi di morte.

Qual è stata la prima immagine, idea o sensazione che ha dato origine a questo libro?

So che può sembrare un vecchio cliché, ma tutto è nato da un incubo in cui uccidevo la mia famiglia in una grande villa. Il sogno, ovviamente, non ha nulla a che vedere con la trama del romanzo, ma quella villa mi è rimasta impressa in modo vivido: ogni dettaglio, ogni stanza, i quadri alle pareti, il giardino, perfino un piccolo mausoleo. Era così reale che mi sono detto: questa casa deve vivere in un romanzo. Volevo costruire una storia che nascesse da un luogo e non da un’idea: da uno spazio che avesse già dentro il suo mistero, come se mi stesse solo aspettando per raccontarsi.

Hai scelto di ambientare la storia a Collegiove, un piccolo borgo nel Lazio. Quali suggestioni ti ha offerto questo luogo e cosa c’è di più inquietante – o più poetico – nella scelta di un piccolo paese per la scrittura?

Collegiove è una parte fondamentale della mia infanzia. In quel paese ho seminato e coltivato sogni, paure e prime fantasie. Ricordo ancora le passeggiate notturne tra i vicoli silenziosi, le strade buie in cui ogni ombra sembrava raccontare qualcosa. È un luogo pieno di scorci suggestivi e misteriosi: la chiesa di Santa Maria arroccata su una collina, la croce di ferro in cima alla montagna… tutti luoghi presenti nel romanzo. Nei paesi piccoli i silenzi diventano più densi, e ciò che altrove scompare nel rumore, lì si ascolta più forte.

Daniele è un protagonista fratturato: ha perso la memoria, è preda di impulsi violenti, è vulnerabile. Come ha lavorato sulla sua fragilità e sulle sfide che lo aspettano, e che tipo di personaggio ha voluto presentare ai lettori?

Sicuramente volevo un personaggio credibile. Daniele è un uomo pieno di debolezze, paure, vulnerabilità. Non è un eroe, né un antieroe: è qualcuno che cerca di rimettere insieme i pezzi senza sapere nemmeno da dove partire. La sua violenza non è un capriccio, è disperazione, rabbia muta che esplode quando non c’è altro modo per reagire. L’ho costruito come uno specchio rotto, attraverso cui osservare cosa resta di noi quando perdiamo tutto, e cosa succede quando si tenta, comunque, di rimettere insieme ciò che resta.

La ragazza che suona il pianoforte incarna una presenza disturbante, quasi archetipica. Chi o cosa rappresenta davvero? Una memoria, una colpa, un desiderio? Raccontaci come hai lavorato su questo personaggio e sull’impatto che ne deriva.

La ragazza del pianoforte è un’entità che sfugge a ogni definizione netta. Rappresenta un demone interiore, ma anche una guida, un ricordo, una minaccia. Non è né viva né morta: è un’emanazione della mente, del dolore, forse persino del destino del protagonista. Ho voluto costruirla come una figura che destabilizza, seduce e inquieta al tempo stesso. Non spiega mai nulla fino in fondo, e proprio per questo ha un impatto profondo: costringe il protagonista – e chi legge – a fare i conti con ciò che è stato rimosso.

Che genere di esperienza emotiva o riflessione hai voluto lasciare ai lettori?

Volevo che il lettore si muovesse dentro un’esperienza inquieta, dove la realtà si frantuma e ricompone senza mai dare certezze assolute. Il romanzo non offre risposte nette: semina dubbi, domande, ombre. Il cuore del libro è la frattura interiore, il tentativo di ritrovare sé stessi in mezzo a ciò che si è perduto o cancellato. Spero che chi legge si senta coinvolto non solo dalla trama, ma da quel vuoto che a volte ci chiama a guardarci dentro.


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“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.”

Italo Calvino

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