
Le memorie oniriche di Yumegawa Mei, Gabriella Feola, Capponi Editore, 200 pagine.
C’è qualcosa di sacro nei libri che custodiscono il dolore e l’amore, nei racconti che sanno posarsi sull’anima. Le memorie oniriche di Yumegawa Mei è uno di quei libri rari, fragili e potenti al tempo stesso, che sembrano scritti più col cuore che con l’inchiostro. Gabriella Feola ci conduce per mano dentro un mondo che non appartiene solo alla realtà, ma si estende nelle pieghe del sogno, nei lembi sottili della memoria, nelle zone d’ombra dell’essere.
Una storia d’amore che sfida i confini del tempo e dello spazio, un lutto mai risolto per la perdita del figlio, trascina la protagonista in una spirale di morte e solitudine ma anche di risveglio. Quel figlio perduto diventa bussola e abisso, eco e speranza. Ed è proprio nella consapevolezza di aver smarrito il senso del limite — divenuta pura mente, priva di freni morali e arsa di sentimenti— che Mei si trova a dover affrontare la parte più oscura di sé, quella capace di infliggere dolore, di compiere atti irrimediabili. Eppure, è in quella discesa nell’ombra che si apre la possibilità del riscatto.
In questo romanzo dove sogno e veglia si confondono, dove la memoria si fa nebbia e visione, la protagonista Mei si muove come un’ombra tra le pieghe dell’esistenza e il suo dissidio interiore si fa carne e silenzio, vuoto e fuoco, colpa e desiderio di redenzione. Attraverso le sue peregrinazioni tra il Giappone e il Sud Italia Mei cerca sé stessa attraversando non solo spazi, ma soglie: quelle del tempo, della memoria, del sé profondo, come se ogni passo nel mondo fosse un passo alla ricerca di un’anima perduta.
Feola intesse la sua narrazione con un linguaggio delicato e simbolico, ricco di richiami alla filosofia orientale, alla pratica della consapevolezza, del vuoto fertile, dell’impermanenza. È come se ogni parola fosse scolpita nel silenzio, come se ogni frase avesse il ritmo segreto della meditazione. Lo stile è introspettivo, sospeso tra poesia e riflessione, tra una domanda non pronunciata e una risposta che giunge solo nei sogni.
I sogni, appunto, sono il vero palcoscenico di questo romanzo: visioni che affiorano come lampi nella nebbia, messaggi che attraversano il tempo, rivelazioni che Mei deve decifrare per poter tornare a vivere. Perché ogni sogno, in fondo, è una seconda possibilità. E ogni secondo vissuto con consapevolezza è un atto d’amore verso sé stessi.
Le memorie oniriche di Yumegawa Mei è un piccolo scrigno di verità, una preghiera laica che parla a chi ha perso qualcosa di irrecuperabile, ma ha ancora il coraggio di cercare. È un invito a lasciarsi attraversare dal dolore senza farsi spezzare, a comprendere che ogni cammino verso la luce passa necessariamente per una notte interiore.
Come i giardini di Kyoto o i vicoli assolati del Sud, questo romanzo è un luogo dell’anima. E chi vi entra, ne esce con un frammento di sé riconsegnato.
Intervista all’autrice

Le memorie oniriche di Yumegawa Mei: qual è stata la scintilla iniziale che l’ha portata a scrivere questa storia?
L’idea mi affascinava da tempo: la possibilità di raccontare un patto, una scelta estrema, immersa in un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà. Volevo scrivere una storia che avesse il gusto intimista e delicato del romanzo contemporaneo giapponese, ma che, in qualche modo, fosse anche ispirata al Faust di Goethe. Come progetto è rimasto in stand-by per qualche anno; la vita ha preso il sopravvento, e quel manoscritto è finito in un cassetto. È stato solo dopo un evento molto doloroso – un aborto spontaneo alla fine del terzo mese di gravidanza – che ho sentito il bisogno di riprenderlo in mano. Scrivere quella storia è diventato un modo per affrontare il lutto, per dare forma al mio dolore.
Attraverso la protagonista Mei, che attraversa la dissoluzione del sé fino a diventare pura mente priva di freni morali e sentimenti, ci racconta un cammino di perdita, colpa e redenzione: qual è la riflessione esistenziale che ha voluto restituire al lettore attraverso questa trasformazione estrema?
Attraverso la trasformazione di Mei, ho voluto esplorare cosa resta dell’essere umano quando tutto ciò che lo rende tale – l’amore, la paura, la morale – viene dissolto. La riflessione esistenziale che volevo restituire è che la perdita – sia essa di una persona cara, di un ideale o di se stessi – ci mette davanti a una scelta: abbandonarsi alla distruzione o cercare una forma nuova di esistenza. E’ proprio in quella condizione estrema di vuoto e oblio che Mei trova la sua possibilità di redenzione, di rinascita.
Tra le pagine si avvertono echi di meditazione e impermanenza: quali esperienze, letture o percorsi spirituali hanno nutrito il suo immaginario e come si intrecciano con il significato simbolico e narrativo della storia?
Diciamo che, di base, il mio background accademico è quello delle religioni e filosofie dell’Asia Orientale, che mi ha influenzato molto sia come pensatrice che come scrittrice. Ogni capitolo del romanzo, per esempio, è un verso del Sutra del Loto, uno dei testi cardine del Buddhismo Mahāyāna. Tuttavia, buona parte del mio bagaglio spirituale, viene dalla fede che professo – sono cristiana protestante. Come scrivo anche nel romanzo, sono convinta che ogni religione custodisca qualche frammento di verità, intuizioni di ciò che trascende il mondo fenomenico. Ciascuna, a mio avviso, merita di essere indagata al fine di riuscire a cogliere questi indizi.
Se potesse lasciare al lettore una sola cosa, come un seme da coltivare in silenzio, quale sarebbe la verità o il sentimento che vorrebbe restasse nei lettori, una volta chiusa l’ultima pagina?
Se potessi lasciare al lettore una sola cosa, sarebbe l’idea che anche nel dolore più profondo può germogliare qualcosa che reca in sé uno scopo, che anche quando ci sentiamo smarriti, siamo comunque parte di un disegno più grande, che spesso comprendiamo solo con il tempo, o forse mai del tutto, ma che ci attraversa con amore. Ed è quell’amore che, anche quando non abbiamo più parole, resta ad aspettarci, lì in silenzio, come una mano tesa nel buio.
Il suo romanzo sfugge a ogni etichetta, sospeso tra introspezione, poesia e filosofia: come definirebbe la sua voce narrativa, e che libertà o responsabilità sente nell’abitare questa forma di racconto?
Per me, scrivere non è costruire una storia finita, ma creare uno spazio, uno spazio al quale si può tornare, se si ha voglia, anche in momenti diversi della vita. La porta resta aperta, e forse, tornando indietro, si può vedere qualcosa di nuovo – qualcosa che la prima volta era rimasto nascosto tra le righe. Questa forma di racconto mi dà grande libertà, ma anche una responsabilità, quella di lasciare al lettore la possibilità di portare dentro il suo vissuto. Scrivo sperando che le pagine che ho scritto continuino a risuonare, anche dopo l’ultima pagina, come un’eco confusa che ognuno può interpretare a modo suo.

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