Articolo di Martina Greggi
C’e’ una parte del linguaggio che vive fuori dalle parole. Un respiro tra le righe, una pausa dopo il punto. E’ lì che si nasconde il silenzio, quel vuoto apparente che non tace, ma parla con una voce propria. Scrivere, dopotutto, non e’ solo scegliere le parole da dire, ma anche quelle da non dire. E in questa omissione consapevole si apre un altro mondo: quello del sottinteso, dell’ombra, del mistero.
Ogni scrittura autentica e’ anche un dialogo con il silenzio. Il bianco della pagina non e’ solo lo sfondo su cui si imprimono le lettere: e’ una parte integrante del testo, un campo di tensione che ospita l’attesa, la sospensione, il non ancora detto. Il silenzio da’ valore alle parole, come la cornice fa con un dipinto. Le mette in risalto, le rende essenziali.
Pensiamo alla poesia: il verso spezzato, lo spazio lasciato tra le strofe, l’ellissi. Sono forme di silenzio che generano senso. E’ lì che il lettore respira, riflette, si insinua. La poesia vive di densita’, e la densita’ nasce proprio dall’equilibrio tra parola e silenzio.
Anche la narrativa gioca con questa dinamica. Un dialogo interrotto, una descrizione incompleta, un dettaglio taciuto possono dire molto di piu’ di una lunga spiegazione. Perche’ il silenzio stimola l’immaginazione, obbliga il lettore ad entrare attivamente nel testo, a colmare i vuoti, a sentire cio’ che non e’ stato esplicitato. L’autore affida alla sensibilita’ di chi legge il compito di decifrare quel che non e’ stato detto, e in questo gesto c’e’ una profonda fiducia nell’intelligenza emotiva dell’altro.
Il silenzio non e’ solo un espediente stilistico. E’ anche una dichiarazione etica. In un’epoca che grida, che mostra tutto, che spiega tutto, scegliere il silenzio puo’ diventare un atto di resistenza. Non tutto ha bisogno di essere detto. Non tutto ha bisogno di essere compreso subito, o del tutto. Alcune verita’ devono maturare nel silenzio per farsi ascoltare davvero.
L’arte visiva ci insegna qualcosa di simile. In pittura, lo spazio vuoto, il cosidetto ”spazio negativo”, e’ spesso cio’ che definisce le forme. Il vuoto ha un ruolo fondamentale: non e’ mancanza, ma respiro. Un invito all’attenzione, alla contemplazione. Anche nella musica, le pause contano quanto le note. Senza il silenzio, la melodia diventa caos.
Il silenzio e’ anche memoria. E’ lo spazio lasciato alle assenze, ai dolori che non trovano parole, ai nomi che non si possono piu’ dire. In certi momenti, il linguaggio si ritira, si inchina. E proprio in quel vuoto parla in un’altra forma. L’arte puo’ rendere visibile questo silenzio. Lo custodisce, lo trasforma, gli da’ forma senza profanarlo.
Nel rapporto tra scrittura e silenzio c’e’ dunque una tensione creativa, un gioco di equilibrio che somiglia molto alla vita stessa. Perche’ anche noi, come i testi, siamo fatti di cio’ che mostriamo e di cio’ che teniamo dentro. Di cio’ che possiamo dire e di cio’ che, per pudore, dolore o amore, scegliamo di non dire.
Scrivere e’ anche scegliere di tacere, ma tacere in modo che l’altro possa intuire, sentire, immaginare. E’ questo il silenzio sacro, il silenzio che parla. Un silenzio che non e’ mancanza, ma presenza. Non e’ vuoto, ma attesa. Non e’ fine, ma apertura.
In un tempo che ci spinge a riempire ogni spazio, a commentare ogni cosa, a spiegare senza tregua, forse la sfida piu’ grande e’ questa: restituire dignita’ al silenzio. Lasciare che il non detto abbia un posto. Scrivere con rispetto per cio’ che non si puo’ spiegare, ma solo evocare.
In fondo, il silenzio non è l’assenza di parole. E’ il luogo dove le parole prendono davvero significato. E forse e’ proprio lì, in quella piega sottile tra una frase e l’altra, che la scrittura tocca il suo punto piu’ alto: quando ci porta a sentire cio’ che e’ stato detto.
