Articolo di Martina Greggi
In un mondo che spesso ci costringe alla fretta, all’efficienza, alla superficialità del dire, esiste un gesto antico e silenzioso che resiste: scrivere. Non per comunicare, non per produrre, ma per abitare uno spazio interiore. Scrivere come si entra in una casa segreta, scavata nella roccia della propria solitudine. Scrivere per restare umani.
“La parola scritta è un rifugio. Non solo uno spazio di evasione, ma una caverna viva in cui le ombre diventano visibili, in cui il caos si traduce in forma.”
Martina greggi
Quando tutto attorno si fa incomprensibile – il dolore, la perdita, la paura – la scrittura ci offre un alfabeto con cui decifrare ciò che non ha nome. È un gesto umile e potente: la parola non cambia il mondo, ma cambia il nostro modo di starci dentro.
Nell’atto dello scrivere, la coscienza si espande. Non siamo più soltanto chi subisce, chi attende, chi sopravvive. Diventiamo chi narra. E chi narra non è mai del tutto prigioniero. Anche nel buio, anche nella costrizione, la parola offre un varco. Pensiamo ai diari scritti nei lager, alle lettere clandestine durante le dittature, alle poesie sussurrate nei manicomi: scrivere è stato, per molti, l’unico atto di libertà rimasto. Un modo per esistere contro l’oblio.
E non si tratta soltanto della grande Storia. Anche nelle nostre piccole, quotidiane catastrofi, la scrittura è una forma di resistenza. Quando la vita si spezza: un lutto, una malattia, una crisi profonda, scrivere permette di raccogliere i frammenti. Non li ricompone, ma li onora. Li guarda. Dà loro dignità.
La scrittura non giudica, non chiede permesso, non pretende logica. Può essere contraddittoria, fragile, spezzata. È proprio in questa imperfezione che si fa umana, vera, necessaria. È un atto di coraggio che non grida, ma insiste. La penna sul foglio, o le dita sulla tastiera, tracciano un percorso che non conduce sempre alla salvezza, ma alla verità, sì.
Eppure, in questa verità, si annida la libertà. Scrivere ci obbliga a fermarci, a guardare dentro. In un tempo in cui tutto spinge verso l’esterno – l’apparire, il mostrarsi, il gridare – la scrittura ci riporta al centro. Non è un’azione spettacolare, ma sovversiva. Chi scrive non scappa dalla realtà: la attraversa con occhi più nudi.
Il legame tra parola e libertà, allora, non è solo politico. È esistenziale. È la possibilità, per ogni essere umano, di dire: “Io ci sono. E questo è ciò che vedo, ciò che sento, ciò che porto”. Anche se nessuno leggerà mai. Anche se il foglio resterà chiuso in un cassetto. Perché la libertà non è nel pubblico, ma nel gesto stesso del dire.
Forse è questo il più grande potere della scrittura: la capacità di tenere accesa una luce, anche quando tutto sembra buio. Una luce discreta, che non pretende di illuminare il mondo, ma che basta a non farci perdere.
Scrivere è un modo di abitare il silenzio. E nel silenzio, talvolta, nasce la parte più autentica della libertà.
