Articolo di Andrea Sartore

Leggere oggi Cristo si è fermato a Eboli equivale a un gesto di commemorazione e memoria, di rispetto nei confronti di chi siamo, eravamo, e vorremmo essere. Duecentotrenta pagine nella magnifica edizione degli Struzzi di Einaudi, la copertina leggermente ingiallita e il lieve odore di tempo sulla superficie del libro mi riportano intatte le impressioni che ho avuto alla prima lettura.

La storia è una storia semplice, incarnata da uomini veri, inghiottiti dal tempo e dal capitalismo, dalla velocità di un cambiamento pasolinianamente arbitrario. Come pasoliniane sono le atmosfere, le estrazioni sociali e le tradizioni dentro cui ci immerge la penna di Carlo Levi, mandato in esilio dal regime fascista al sud Italia, bollato come oppositore politico.

Da Stigliano a Gagliano, la terra che ci accompagna è la terra lucana, arida, che si riflette in un gioco silenzioso e osmotico sulla pelle dei suoi abitanti: poveri, malconci, malarici e dannatamente soli. Soli perché abbandonati da uno Stato che non sentono proprio, soli perché emarginati, ultimi, lasciati indietro da un progresso a trazione nordista; soli perché ontologicamente diffidenti da qualsiasi potere: sia esso il podestà del paese o il farmacista che li vuole ammalati per fare profitto e lasciarli indisposti in eterno. Soli perché solitarie sono le loro occupazioni: agricoltura e allevamento.

Sono masse solitarie quelle che dal paese si levano ogni mattina, al buio, come nuvole dentro il freddo del mondo, per spostarsi nei campi e lì rimanerci per tutto il giorno, piegati. Carlo Levi porta alla luce quel mondo fatto di riti ormai perduti, di stagionalità, di semplicità, di credenze e leggende; alcuni col mito dell’America, andati e tornati con un bagaglio di ricordi, incastrati però dal cullare di casa, da un amore inaspettato o dalla nascita di un figlio. Tutti, senza eccezione, condividono un destino di povertà e fatica, di attaccamento tellurico a una vita stentata, piena di silenzi ma anche di gratitudine.

In particolare nei riguardi dello stesso Levi, che in quei mesi di isolamento si è prodigato per la loro salute, per l’epidemia di malaria che attanagliava e imprigionava i bambini, per le condizioni igienico-sanitarie in cui versava la maggioranza della popolazione, per una presa di coscienza di quella che sarebbe diventata, ed è tristemente ancora “la questione del sud Italia”.

E’ un libro pieno di grazia, un’istantanea di un mondo che non c’è e non esiste più. Un libro che ha sullo sfondo la quotidianità dentro un regime verticale e tenebroso come quello fascista, che trova la sua linfa nella cultura del sospetto, nell’anteposizione epistemologica dell’azione al pensiero. E’ un libro pieno di sentimenti e speranze, di tristezze e soprattutto colmo di una tipologia di uomo affondato e mai più ripreso. E’ un testo che ci ricorda da dove siamo venuti e dove siamo arrivati, in poco, pochissimo tempo. Involontariamente ci racconta cosa abbiamo perduto nel tragitto, in termini umani e umanitari, dell’occasione che non abbiamo sfruttato di salvare un ecosistema, che era poi un universo fatto di tradizioni, lingue, culture popolari, cancellati e resi illeggibili dall’appiattimento del progresso e della globalizzazione quasi ne rappresentasse il contraltare e il bilanciamento dannatamente inevitabile.

In chiusura vorrei restituire due episodi del libro. Il primo: la passatella. E’ il gioco dei contadini nei giorni di festa. Consiste in un breve gioco a carte per decretare un vincitore: il Re e il suo aiutante. I due sono da quel momento in possesso della bottiglia pagata da tutti i partecipanti al gioco. Il loro potere? Decidere chi rimarrà a bocca asciutta e chi berrà per tutta la durata della passatella. Ogni scelta dovrà però essere giustificata da un lungo contraddittorio fatto di tesi e antitesi, dove confluiscono risentimenti, asti e violenze assopite in un meraviglioso quanto nostalgico gioco che  assume le sembianze di una monarchia democratica.

Il secondo: a Carlo Levi viene impedito all’improvviso di trattare i suoi pazienti. Troppo pericoloso per la narrazione fascista l’entusiasmo montante attorno la sua figura. Ma il popolo di Gagliano venuto a saperlo insorge e, badate bene, dopo aver preso in considerazione la rivolta armata si abbandona a una meravigliosa, satirica, opera di teatro itinerante in cui si rappresenta la vicenda subita. Dentro ci sono tutti: il podestà e il suo potere, Carlo Levi, l’abbandono e il senso eterno di sconforto che li attanaglia. Potrà sembrare elemento di poco conto, ma teoreticamente questo episodio mi ha ricordato cosa dev’essere la vera opera d’arte: l’ultimo, sincero, agonizzante moto di vita dopo aver pensato e poi neutralizzato l’istinto della violenza.


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“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.”

Italo Calvino

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